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rimbomba all'interno attraverso la finestra. I vetri vibrano, pericolanti, tenuti da una
banda di nastro adesivo rovinato dal sole.
«Facevo la quinta elementare, c'era un vestito su un banco al mercato, un vestito
di voile a fiori rossi. Era sabato, giravo per il mercato ma tornavo sempre a quel
banco per guardare il vestito. Era l'ora di pranzo, il mercato era mezzo vuoto, quelli
dei banchi stavano mettendo via la roba. C'era un uomo che piegava magliette. "Lo
vuoi provare?" mi dice, io gli dico che non ho i soldi. "Provare mica costa.» Salgo sul
camion, l'uomo mi aiuta a salire. Mi provo il vestito dietro una specie di tenda.
L'uomo viene anche lui dietro la tenda e mi comincia a toccare: "Ti piace il
vestito...». Io non posso muovermi, così rimango ferma mentre quello mi tocca.
Dopo, è tutto sudato: "Non dire niente a nessuno", e mi regala il vestito. Io cammino
con le gambe che sono di gomma, ho i vestiti miei in mano e il vestito con i fiori
addosso. A casa me lo levo, lo metto sotto il letto. La notte mi sveglio, ci faccio la
pipì sopra perché penso che quel vestito mi porterà solo cose brutte, il giorno dopo lo
brucio. Nessuno lo sa, però a me sembra che lo sanno tutti, e che tutti possono
portarmi sopra un camion a fare le porcherie.»
È la prima volta che mi parla di sé.
Elsa è tornata dal viaggio, la sua borsa è all'ingresso sul tavolo, accanto ai suoi
occhiali da sole. Arriva odore di curry e il suono di una musica che non riconosco,
sembra pioggia sui vetri e vento tra gli alberi. Tua madre avrà comperato un nuovo
disco. In soggiorno la tavola è apparecchiata. Su quel piano di lavagna e ciliegio
stasera non ci sono le solite pile di libri e di giornali, c'è una bottiglia di vino
francese, una candela azzurra, e i bicchieri a stelo lungo.
Tua madre si è affacciata sulla porta della cucina.
«Ciao, amore.»
«Ciao.»
Mi sorride, è truccata, ha i capelli spazzolati, indossa un pullover a maniche
corte avorio e pantaloni neri, un grembiulino da cuoca stretto intorno alla vita.
Verso il vino nei bicchieri e la raggiungo in cucina; è attaccata ai fornelli, sta
girando un mestolo in una pentola.
«Com'è andato il viaggio?»
«Noioso. Cin cin.»
I bicchieri si toccano.
«Come mai?»
«Sono diventati tutti così scadenti.»
Alza le sopracciglia, beve, poi abbandona il mestolo e fa un passo verso di me.
«Un bacio.»
M'ingobbisco verso le sue labbra, si stringe a me. Ed è come se la sua figura
stesse cercando un posto nuovo tra le mie braccia. Forse è l'esatto contrario di quello
che penso, ha ricevuto una delusione dal suo viaggio.
«Ti hanno licenziata?»
«No, perché ho l'aria di una a spasso?»
Prendo il pane e comincio a tagliarlo. Lei è alle mie spalle, sontuosa come
sempre, lei che riempie i luoghi di se stessa. Ma sembra più appartata, un insolito
riserbo l'accompagna, china su quella pentola, su quell'agnello stufato che cura con
estrema attenzione. Devo parlarle, devo dirle che me ne andrò. Non sarò più l'uomo
di questa casa.
Ci sediamo a tavola. Anche il cibo è più ricercato del solito.
«È troppo piccante, vero?»
«No, va benissimo.»
Ho la bocca in fiamme, butto giù un sorso di vino. Voglio mangiare in fretta,
condurla sul divano e dirle come stanno le cose, però non immaginavo di trovarla
così disarmata. Ha messo troppe spezie in questo ridicolo spezzatino esotico e adesso
sembra addirittura mortificata. Sta sfoderando una zona di sé che teneva ben
nascosta, forse ha capito di avermi perso. Peccato, poteva pensarci prima. Ora è tardi,
queste premure inattese mi imbarazzano, mi danno fastidio. Non basterà un vino
francese, una candela, a farci tornare indietro. O c'è una sorpresa in serbo per me,
dietro quella maglietta di cachemire avorio? Forse è lei che vuole lasciarmi. Ha il
bicchiere posato contro una guancia, il vino oscilla lievemente nella trasparenza del
vetro, le colora il naso e parte di un occhio.
Sollevo il tovagliolo. Sotto c'è una cartolina. Uno scorcio della vecchia Lione
con un uomo e una donna in costume regionale seduti davanti a una porta azzurra.
«Non me l'hai spedita.»
«Non ho fatto in tempo.»
Volto la cartolina e leggo. Due parole, nient'altro che due parole scritte a biro.
«Cos'è?» soffio.
Elsa ha gli occhi color del vino, e il vino oscilla con i suoi riverberi rossi sul suo
sorriso.
«È così.»
Non dico nulla, respiro, soprattutto respiro... sto fermo perché se mi muovo
cado, inciampo e cado all'indietro, dove quel sorriso mi spinge.
«Sei felice?»
«Certo.»
Ma non so dove sono, né cosa sto pensando. I suoi occhi mi ricordano una strada
di notte, che si chiude all'orizzonte tra gli alberi, tra i rami.
«Vado a prendere la creme caramel.»
Sono incinta, due parole scritte con la biro nel retro di una cartolina azzurra.
Adesso sta rovistando nel frigorifero e io sono qui davanti a questa candela immobile
nel vento. Un vento che si e alzato improvviso, polvere che mi acceca. Chiudo gli
occhi, e mi lascio tartassare. Non posso pensare a niente, è troppo presto. Ingoio la
creme caramel in pochi bocconi, poi con un dito rimango sul piatto, lo intingo in quel
fondo di zucchero marrone e me lo porto in bocca.
«Quando l'hai saputo?»
«Avevo un po' di ritardo, ho comprato i tappi per le orecchie perché li avevo
dimenticati e ho chiesto un test di gravidanza. Poi l'ho dimenticato nella borsa, l'ho
fatto solo stamattina in albergo prima di partire... Quando è uscito il pallino sono
rimasta a guardarlo per non so quanto tempo, il taxi era sotto e non riuscivo a
muovermi dalla stanza. Volevo dirtelo subito, ho provato a chiamarti in ospedale ma [ Pobierz całość w formacie PDF ]

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