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vuoto ancora in mano.
Subito dopo a crollare fu Susan. Fino a un minuto prima camminava avanti e indietro col telefono in
mano, prendeva accordi per la proiezione di Colpo grosso in un cinema di Chicago. Ora stava stesa sul
tappeto con un cuscino schiacciato sotto la faccia.
Blair si alzò, imballò le sue cose e ci disse di stare a sue spese in quel posto quanto volevamo. Nessuno
del personale dell'albergo ci aveva neanche visti. Semplicemente rilassate-vi. Quanto a lui, doveva andare
immediatamente in un laboratorio di New York con Eric Arlington!
Lo aiutai ad ammucchiare la roba nel corridoio per l'inserviente dell'albergo, cosicché nessuno avesse
bisogno di entrare in camera. Dopo di che venne a salutare Belinda con un bacio.
«Dove sono i miei centomila dollari?», disse Belinda con dolcezza.
Lui si fermò. «Dove cavolo è il mio libretto degli assegni?».
«All'inferno tu e il tuo libretto degli assegni. Ciao». Lo abbracciò e lo baciò.
«Ti voglio bene, bambina mia», disse lui.
Prese la pellicola e se ne andò.
«Significa che non avremo i soldi?», domandai.
«Ci ha lasciato le pellicce», disse lei. Si appallottolò nel visone bianco e si fece una risatina soffocata. «E
abbiamo anche il Dom Pérignon. E scommetto che Marty sta portan-do a buon fine un grosso accordo
con la televisione via cavo per Volo Champagne: "Continua, non censurata, la storia... bla, bla, bla"».
«Lo pensi sul serio?».
Annuì. «Aspetta e vedrai». Ma il viso a quel punto le si oscurò. Cadde un'ombra sulla sua anima.
«Vieni qui», dissi.
Ci alzammo insieme, prendendo lo champagne e i bicchieri, poi entrammo furtivamente i,n camera da
letto e chiudemmo la porta.
Accostai i pesanti tendaggi fino a che nella stanza non entrava che un poco di luce solare. Qui tutto era
puro e calmo. Neanche un rumore da giù, dalla strada. Belinda mise lo champagne sul comodino.
Lasciò quindi cadere la pelliccia di visone bianco sul pavimento.
«No, stendila sul letto», dissi con dolcezza. Vi appog-giai accanto la mia. Il letto era completamente
coperto.
Allora ci togliemmo i vestiti e ci adaggiammo sul visone bianco.
La baciai piano, aprendole le labbra, poi sentii la pressione dei suoi fianchi, e la morbidezza della
pelliccia bianca e le sue dita che mi accarezzavano, e i suoi capelli che mi coprivano completamente il
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braccio. La sua bocca si aprì, diventò dura e morbida nello stesso tempo.
Le baciai i seni e poi vi abbandonai sopra la faccia e poi presi a strofinarli con la mia ispida barba non
rasata. La sentii sotto di me, inarcarsi sulla schiena e spingere, il suo piccolo nido di peli del pube
solleticante e bagnato contro la mia gamba, e allora entrai.
Non penso che avessimo mai fatto l'amore così veloce-mente, col calore che saliva all'apice così presto,
neanche la primissima volta. La sentii ondeggiare e venni, e pensai «È proprio Belinda», e quando tutto
finì io giacevo là aggrovi-gliato a lei, con la sua guancia contro il mio petto, con i capelli che le fluivano giù
sulla schiena nuda, e immediata-mente, al di sopra del rumore e del trambusto di Reno, in questa camera
calda e silenziosa, ci addormentammo.
Era pomeriggio inoltrato quando Susan bussò alla por-ta. Era ora di andarsene da questa città. Stavano
facendo vedere le videocassette dello sposalizio in TV.
Da mettermi non avevo che la giacca da sera e la sgualcita camicia inamidata, perciò le reindossai e
entrai nel soggiorno dell'appartamento. Belinda mi venne dietro: si era messa frettolosamente jeans e
maglione e sembrava bella quanto qualsiasi sposa agghindata dovrebbe sembrare.
G.G. stava telefonando a Alex, ma riattaccò quando en-trammo noi. Susan ci disse che il jet del suo
papà era pronto per portarci in Texas. E aggiunse che quello era assoluta-mente il posto più sicuro dove
andare. Potevamo aspettare là che le acque si calmassero, e nel ranch dei Jeremiah nes-suno,
assolutamente nessuno, ci avrebbe creato problemi.
Ma dalla faccia di Belinda capii che quel progetto non la entusiasmava. Si mordicchiava un'unghia, e vidi
di nuovo l'ombra. Vidi la preoccupazione.
«Di nuovo in fuga? Fino al Texas? Susan, tu stai cercando di preparare un film a Los Angeles. Stai
cercando di procurarti un distributore per Colpo grosso. E ci andiamo a infognare in Texas? Per cosa?».
«Il matrimonio è legale», dissi io. «E a quest'ora tutti ne sono a conoscenza. Oltretutto non era stato
spiccato nessun mandato sul mio conto quando me la sono filata, tu lo sai. Non c'è nessun problema di
complicità».
«Sono proprio curiosa», disse Belinda, «di vedere cosa potrebbero farci».
«Possiamo andare a Los Angeles», disse G.G. «Alex è pronto ad accoglierci. Dice di avere una camera
matrimo-niale pronta per te e Belinda, Jeremy. Tu conosci Alex. Lascia entrare poliziotti e reporter e
serve loro cracker con Brie e Pinot Chardonnay. Dice che possiamo stare a Beverly Hills per sempre, se
vogliamo».
«Allora che volete fare?», disse Susan. «Abbiamo un jet Lear che ci aspetta. E io ho un sacco di lavoro
da fare a Los Angeles».
Belinda mi guardò. «Dove vuoi andare, Jeremy?», domandò. La sua voce era di nuovo fragile e
spaventata. «Dove vuoi che stiamo, Jeremy?», domandò.
Mi addolorò l'espressione dei suoi occhi.
«Tesoro, non c'è nessuna differenza», dissi. «Se posso comprare qualche tela e qualche colore a olio
Windsor e Newton, se posso sistemarmi in un posto per dipingere un po', non m'importa se stiamo a Rio
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de Janeiro o in un'isola greca o in un satellite nello spazio».
«Coraggio, Walker!», disse Susan. «Via subito fuori di qui per Los Angeles».
Caddi in una specie di dormiveglia quando fummo lassù tra le nuvole. Ero sprofondato in un grande
sedile ribaltabile di pelle e lo champagne stava facendo sentire il suo effetto. Quasi in sogno immaginai dei
quadri. Mi si svilupparono in mente come foto in una camera oscura. Scene prese da tutta la mia vita.
Belinda parlava teneramente a G.G. della sua ultima permanenza a Roma e di come s'era sentita sola
nonostante il lavoro a Cinecittà fosse stato buono. Aveva una graziosa camera a Firenze ad appena un
isolato dagli Uffizi e vi andava quasi ogni giorno. Quando vedeva tutti quei negozi di guanti sul Ponte
Vecchio, pensava a lui e a quando le aveva comprato proprio là, quando aveva quattro anni, il suo primo
paio di guanti bianchi.
Allora G.G. le assicurò che non dava molto peso alla chiusura della sua attività a New York. Avrebbe
potuto trattenersi là, combattere fino in fondo e probabilmente avrebbe vinto. Non aveva però mai
saputo come si diffusero quelle voci. Forse non fu Marty, ma furono gli uomini di Marty. Ma ora tra lui e
Alex "c'era qualcosa", qualcosa che era meglio di come era stato con Ollie, e forse G.G. avrebbe messo
su un negozio a Rodeo Drive.
«Ho quarant'anni, sai, Belinda», disse. «Non posso fare l'eterno ragazzino. La fortuna, prima d'ora, deve
aver-mi scansato. Ma ti dico che è meraviglioso fare l'ultima puntata assieme a Alex Clementine, assieme
al tipo che ero solito guardare sullo schermo quando avevo dodici anni».
«Sono contenta per te, papà», disse lei.
Un salone di G.G. a Beverly Hills era una possibilità concreta, perché no? Lui in realtà a New York,
dicerie o no, aveva fallito. Se si fosse venduta la casa di Fire Island, avrebbe realizzato una piccola
fortuna. «Oh, ma sai», rise, «G.G. a Rodeo Drive farebbe proprio impazzire Bonnie».
Le nuvole fuori dal finestrino assomigliavano proprio a una coperta. Il sole del tardo pomeriggio fiondava
una sventagliata di torridi raggi d'oro, che entravano attraverso il finestrino e investivano insieme Belinda e
G.G. I loro capelli sembravano confondersi diventando luce.
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